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Il tema della violenza è da sempre un tema irrisolto nella mia vita. Quella sulle donne come quella sui bambini come quella su qualunque impotente della terra. Non sono uscito dal mio dibattito interno quindi scrivo con estrema cautela, per cercare di aiutare il processo di comprensione a me stesso, non per fornire punti fermi di merito agli altri.

Perché un dialogo sia possibile sono necessarie alcune cose e mi rendo conto sempre di più che non sono poche. La prima è che una persona comunichi. Non intendo solo nel momento dell’emergenza in cui bisogna gridare aiuto, mi riferisco a quello cui stiamo assistendo adesso: #metoo e #quellavoltache. Cioè il racconto – magari anche a distanza – non solo del fatto ma del dolore, della rabbia, del sopruso, dell’umiliazione, della vomitevole ingiustizia.

Per comunicare un trauma tanto grande ci vogliono parole pensate, scolpite nella pietra della verità. Ci vogliono parole autentiche, non importa che siano ben scritte o colte o con i congiuntivi a posto. Ma che aiutino i maschi che non hanno mai subìto un abuso a farsi per lo meno una vaga idea di che cosa significhi. Qui non è una questione di raccontare i fatti, che per certi uomini potrebbero essere persino stuzzicanti, ma il peso devastante che hanno nelle vite di chi li ha vissuti.

Di rabbia si muore. Ci si ammala proprio fisicamente, perciò trovo del tutto sano che le donne siano ascoltate in tutta la loro furia. Non si può vivere una vita nella paura, nel sopruso, nella sottomissione così endemica che ormai rischia di non essere nemmeno più consapevole. Ma chi ci offre uno spazio come quello dei social per sfogare la nostra rabbia non necessariamente ha buone intenzioni.

La rabbia rovesciata a piene mani contro uno, alcuni o tutti i maschi della storia, non è comunicazione. Se quello che abbiamo in mente è la vendetta, l’insulto di genere può essere una – ben magra – consolazione. Se quel che si cerca è incontrarsi, si tratta di un terreno che va immediatamente abbandonato. #metoo e #quellavoltache sono meravigliosi alleati per il maschio abusante. Per una ragione molto semplice.

Il potere da sempre è in mano a chi possiede i contenitori, non in mano a chi produce i contenuti. La Casa Editrice ha il coltello dalla parte del manico, non l’Autore, a meno che non sia un big. Eppure senza l’Autore (e il Lettore) la Casa Editrice muore. Ecco perché i proprietari dei contenitori aprono a chi porta contenuti e cercano di farli fruttare il più possibile.

In altre parole, sui contenitori social le cose funzionano finché le discussioni vanno avanti e le discussioni vanno avanti finché non ci si capisce. Quindi il proprietario del contenitore è molto affezionato all’idea che la discussione non approdi a nulla. Però intanto scorre il sangue, scorrono gli insulti, le amicizie si rompono e si creano, cose altissime si mischiano alle peggio zozzerie. E il tritatutto lavora magnificamente, felice di ogni fraintendimento assai più che di ogni intendimento.

Quindi, ecco perché #metoo e #quellavoltache sono amici dei maschi abusanti. Perché quando un tema viene portato a diventare un hashtag, diventa un tormentone. E i tormentoni fanno la fine dei tormentoni: annoiano. Bingo. Si tratta di aspettare un paio di mesi. A Natale di questa roba non parla più nessuno, le donne avranno vomitato sui social quel che dovevano, gli uomini si saranno divisi in paladini delle donne, reattivi e agnostici e la vita torna esattamente come prima. Sotto con il nuovo hashtag. Dopo i vaccini gli abusi e dopo gli abusi vedremo.

Questa non è una discussione in buona fede. Così non va. Non devono abboccare le donne e per favore nemmeno gli uomini. La violenza sulle donne – come tutte le altre violenze, anche quelle delle donne – deve finire davvero. Abbiamo bisogno di parlare, non di chiacchierare. Abbiamo bisogno di ascoltare con la pancia, non distrattamente mentre mandiamo un WhatsApp. Nessun dolore profondo si comunica in questo modo, non buttiamo una parte di noi che sanguina in mezzo alle pubblicità e ai post su cantanti e gattini.

Un elemento chiave di questo carrozzone è la velocità. Le reazioni, gli emoticons, sono mosse d’impulso. Questa velocità ci tiene nel recinto della reazione e non ci permette di accedere al campo aperto e profondo della risposta. La velocità è stata promossa a virtù, in questo modo è diminuito il tempo di digestione delle parole, ma di una persona non abbiamo capito niente se non ne abbiamo capiti i silenzi. I silenzi sono quei momenti in cui nessuno parla. In cui le parole stanno andando verso la mente, verso il cuore. In cui le parole ci visitano in profondità.

Tutto questo è nemico dei social. E impedisce la seconda cosa importante nella comunicazione: è necessario che qualcuno parli, ma anche che qualcuno ascolti. Ascoltare – e adesso è il turno degli uomini – significa tacere per un po’. Accettare di non aver capito. Prima di mettere un commento, prima di insultare, prima di reagire, appunto, prova a far scendere dentro di te quello che ha scritto quella donna.

In questi giorni ho letto numerosi post #metoo. Molti di donne cui voglio profondamente bene, di cui ho una profonda stima certificata dagli anni. E in alcuni di questi post ho visto delle generalizzazioni, delle accuse al mondo intero, della violenza efferata contro tutto e tutti che mi hanno davvero toccato. Ecco. Posso decidere di reagire e cantargliene quattro. O di tacere. Ascoltare questa rabbia. Ricordarmi delle volte in cui con queste donne ho lavorato, mangiato, scherzato, progettato, provato. Sono sempre loro. Solo che stanno tirando fuori una rabbia che non si può non accogliere.

Spazio dentro di noi, spazi di silenzio fra le parole. Accettare di non aver capito. Accettare che per capire ci vuole tempo. Che prima di avere un parere nostro e di esprimerlo ci vuole tempo. Che per imparare a dialogare ci vuole tempo. Accettare la lunghezza, accettare la lentezza. Che sono i tempi in cui crescono le piante, gli animali e gli uomini. Sono i tempi della vita di cui ci siamo dimenticati in questo infantile uso di una possibilità tecnologica che useranno meglio più avanti.

E poi farsi un po’ più furbi e non abboccare a chi ci dà gratis un profilo personale, che siano facebook o twitter o altro ancora, da cui dire quello che ci pare. E’ vero che è uno spazio. Ma non è vero che è gratis.

 

 

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