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Dopo le righe che avevo scritto su Nadia Orlando e sul collo delle donne, Giada mi aveva lanciato una provocazione molto acuta. Nella sostanza diceva: pur se condivisibile, quello che hai scritto è facile. E’ sempre facile immaginarsi genitori della ragazza che ha subito violenza. Ma se tu fossi il padre del ragazzo che ha ucciso?

Colgo questo spunto per me. Non tanto perché provenga da mia moglie, ma perché proviene da una donna. E per quanto un uomo ci possa provare, il dolore delle donne lo sentono le donne. Vale anche al contrario, naturalmente, ma ora è di questo che parliamo.

Dunque è vero. Attorno al collo delle donne si stringono le mani degli uomini.

Un uomo che strozza una donna che lo lascia non sa accettarne l’abbandono, questo è evidente. Ma qui i casi sono così tanti che non si può non domandarsi da che contesto nascano tutti questi omicidi. Vado per cose semplici perché non ho nei miei strumenti la capacità di un’analisi sociologica che non mi compete. Ragiono da uomo semplice, marito e padre di una ragazza e di un ragazzo.

Mi dico che all’inizio queste donne con questi uomini ci sono state. Non avranno visto, capito, saputo intuirne la violenza. O forse i vari lui sono poi cambiati, o forse chissà. Sta di fatto che questa violenza deve essere partita da uno stato di non violenza o meglio di violenza non evidente. Poi le cose saranno peggiorate, ma parliamo dell’inizio, di quando ci si innamora, di quando ci si sceglie.

Uno sta dove si sente bene. Il nostro sentirci bene è il principio di ogni scelta. Non che sia un male, ma a volte forse non ci dedichiamo a conoscere profondamente quel che ci fa stare bene e ci accontentiamo di questa sua proprietà, un comportamento pericoloso sia con le persone che con le sostanze. Una mia convizione del tutto soggettiva: mentre quando una persona ci fa sentire male abbiamo un motivo sufficiente per allontanarci, quando ci fa stare bene non abbiamo un motivo sufficiente per starci. Perché in tutto questo, l’altro non c’entra mai. C’entra solo come ci sentiamo noi e noi non siamo la relazione, noi siamo solo noi.

Mi rendo conto che questa premessa può essere fuorviante: non sto pensando a eventuali responsabilità della povera Nadia, al contrario sto pensando proprio agli uomini.

Il problema è l’altro. L’altro che non c’è mai davvero nelle nostre riflessioni, nelle nostre scelte, nelle nostre intuizioni. Viviamo in un tempo che teme ogni tipo di alterità. Tutto è fruibile, assimilabile, tutto è friendly veloce a portata di rapido pensiero. Non siamo aiutati a pensare che l’altro sia un mistero, che dei suoi pensieri non sappiamo nulla, che delle sue emozioni forse non abbiamo capito nulla.

L’amore per come ci viene rappresentato è un’esperienza che si esaurisce nella piacevolezza, non ha nulla a che vedere con la fatica, con il dolore, con la paura, con i ripensamenti, con il coraggio. In altre parole il nostro amore con un’altra persona è quando noi stiamo bene con l’altro e basta.

Questo star bene è avulso dalla realtà, è uno stallo narcisistico ed edonistico che non ha rapporto con la vita e quindi nemmeno con le relazioni. Soprattutto non contempla l’altro per definizione: la fine delle cose. Uno star bene così costruito è cieco al futuro, al cambiamento, alla morte. E sappiamo bene come il nostro tempo sia allergico ai discorsi sul dolore e sulla morte.

Le mani degli uomini si stringono anche perché le loro teste e i loro cuori hanno abbandonato i sogni. Ciò che non è arrivabile deve essere eliminato perché mi dice del mio limite, della mia finitudine e quindi della mia morte. Il no di una donna è quest’esperienza nel cuore di un uomo. Che è abituato a cose apparentemente non violente: Sky 24 ore su 24, sigaretta quando si vuole, contatti permanenti con chiunque. Non ci sono più nemmeno i tempi che ci dicevano di no: la domenica ogni Centro Commerciale è aperto, la spesa si fa in piena notte e per tutta la notte in qualsiasi Carrefour.

Il no è l’altro. Il no è la morte. Il no è quello che ci aspetta se guardiamo le cose come semplicemente stanno.

Una donna che mi lascia è un grande no. Scompare dal mio tempo e dal mio spazio. Rompe l’illusione di quel presente sospeso che non sarebbe finito mai. Non è rabbia quella che fa stringere le mani degli uomini, ma fottuta paura di morire. Paura e inconsapevole vigliaccheria, nel senso che siamo reazionari e religiosissimi. Non di Chiesa ma di Consumo. Seguiamo pedissequi una marea di regole non nostre. Compriamo quello che non vogliamo, ci piace quello che non ci piace e diventiamo religiosi. Religiosi sul cibo, sul tifo, su qualunque prodotto.

Se fossi padre di un ragazzo che ha ucciso la sua fidanzata. Per venire a noi. Non che queste riflessioni possano rispondere alla domanda di Giada. E’ la domanda dell’altro e per me sarà sempre troppo grande. Non lo so. Se fossi suo padre, non lo so. Posso pensare che mi accuserei di questo: di non avergli insegnato a trasgredire. A trasgredire veramente.

Trasgredire significa andare oltre. E l’unica trasgressione di cui valga la pena è quella verso se stessi. Andare senza paura oltre se stessi è l’unica trasgressione vera, perché quel che incontriamo quando usciamo veramente da noi, è l’altro. Non come ci fa sentire, ma come si sente lui. Non come lo vediamo, ma come vede. Non come lo pensiamo, ma come pensa.

L’unico modo di incontrare l’altro è lasciare i nostri confini. L’altro è oltre la zona di sicurezza. Lo incontri quando rischi e nella misura in cui rischi, in cui accetti il tempo che passa e che trasforma. Uccidiamo perché la nostra paura di morire ci impedisce di incontrare la vita per come è.

Possa Nadia riposare in pace e possano gli uomini tornare a essere coraggiosi, a tenere presente la morte per poter finalmente vivere. Possano i colpevoli e i loro cari venire a capo di un dolore tanto grande.

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