Quando vado a vedere un film di Ron Howard non so mai se mi piacerà ma so che sarà in ogni caso un buon film. Ogni volta mi dà un senso di affidabilità che non so definire. E’ un campione di tecnica ma anche di senso del cinema. Un senso sviluppato a 360 gradi, dalla sceneggiatura alla recitazione, allo shooting e al montaggio. E’ sempre cinema che sa di completezza e di forza narrativa. E questo film non fa eccezione.

    Frost Nixon è una prova singolare per il modo di girare di Ron Howard, perché lo costringe a misurarsi con un linguaggio che sfiora il documentario, mentre la sua indole più conosciuta è un’indole spiccatamente narrativa e di fiction. Da Apollo 13 a A Beautiful Mind, da Cinderella Man a Il Codice Da Vinci, con alterni risultati siamo comunque sempre lontani da una narrazione documentaristica. Proprio Apollo 13, storia vera e quindi papabile di essere girata a tiro di realtà, è invece sviluppata molto di più sulle corde dell’epica.

     Qui il gioco si fa duro, e la lingua di Ron Howard diventa essenziale, la macchina è molto controllata ma sempre fluida, se non a mano su steadicam. In ogni caso, molto vicina alla vita. Ecco che il lavoro si sposta – per dare respiro epico – sulla sceneggiatura che come in una tragedia greca che divide la storia in stasimi, scandisce la linea narrativa in giornate di intervista. Come dire: sceneggiatura regolata alla stregua di un rito, come un incontro di boxe combattuto a parole e suddiviso in round, e regia quasi leggera – in realtà molto abile nell’impostazione della recitazione: da oscar i due attori principali.

    Qui dove sembra vedersi meno, la regia di Ron Howard è ancora più sapiente che altrove.  Dopo la parentesi imbarazzante del Codice Da Vinci, è finalmente tornato su ragionamenti sottili e su piani narrativi sofisticati. Ma sulla sceneggiatura qualche cosa di strano mi è sembrato di vederlo, e secondo me è il motivo per cui questo film è piaciuto ma ha anche lasciato fredda una parte del pubblico. 

    Quando si racconta una storia vera, la difficoltà  è che i fatti li conosciamo tutti,  ma anche che conosciamo soltanto quelli, e che il dolore interno del personaggio, il suo fatal flaw, è sempre oggetto di interpretazione personale e quindi spesso opinabile. Se una storia è il racconto dell’esperienza, e quindi dell’elaborazione interna di un evento esterno, la parte più decisiva da scrivere è quella dei fatti che non conosciamo all’interno della storia che conosciamo già dai giornali.

    In Frost Nixon c’è lo stesso problema di Apollo 13. Tutto perfetto e abilissimo, ma mancano i drammi interni dei personaggi. E’ solo ad un certo punto che Nixon – ubriaco, poche sere prima dell’intervista decisiva – chiama al telefono Frost.  E gli dice al telefono qual è la sua sofferenza profonda. Non aver studiato ad Oxford, essere snobbato perché di Cambridge, qualcosa che nessun successo placherà e risolverà mai. Per di più, nell’ultima intervista Nixon cede, e riconosce di aver tradito il popolo americano. Questo lo fa diventare grande, vincente, lo fa diventare il personaggio che amiamo. Frost rimane chiuso nella sua faccetta da furbo, nel suo successo superficiale, senza nessun calore. Nixon fa un cammino, un percorso. Amiamo sempre chi cambia, amiamo sempre chi cede e modifica le posizioni precedenti. Questo fa di Nixon, apparentemente massacrato dal film, il vero grande eroe della vicenda.  

    Di per sé questo non sarebbe un problema di sceneggiatura. Va benissimo, è una scelta. Il pubblico però – coinvolto dal modo strepitoso in cui è portata avanti la narrazione – alla fine rimane anche lievemente disorientato. Non capisce più il panorama dei valori. Il che – aggiungo – potrebbe essere ancora una volta un pregio dello script. Il punto problematico è semplicemente che noi partecipiamo dell’azione di Frost contro Nixon, lo seguiamo nei suoi sforzi, nel suo percorso di sfida contro tutto e tutti, e poi alla fine ci rendiamo conto che dall’altra parte c’era l’uomo vero, che era Nixon il nucleo veramente drammatico e poetico del film. Tutto qui. E’ una costante dei film di Ron Howard: sono solidi, strepitosi e sono grande cinema, ma spesso sono come appoggiati male sul dramma dei personaggi, c’è spesso qualcosa che non funziona internamente fino in fondo.

    Rimane comunque un film da vedere. Assolutamente. Ci parla di Storia, di storie, fa cinema, emoziona, coinvolge, fa venir voglia di rimettersi a studiare. Meglio di così…

 

 

0 risposte

  1. Pienamente d’accordo…mi resta solo un grosso dubbio e riguarda il personaggio di Frost: è mai possibile che una persona, che ha il privilegio di vivere un’esperienza umana più unica che rara, e cioè quella di raccogliere le confessioni (ed il dramma riparatore) del personaggio storico più importante del momento a livello mondiale, non si senta ritorcere lo stomaco? Possibile che rimanga il superficialotto di prima?? Siccome non credo che possa essere sfuggito agli sceneggiatori, credo invece che qui Howard ci abbia voluto dire che il successo, i soldi e quant’altro di questo genere, asfaltano anche la più profonda e travolgente esperienza di vita umana che tu abbia mai avuto la fortuna di vivere. Solo che però, così, sarebbe relegato un pò in fondo al film..

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