Un vecchio e abusato adagio recita che la prima vittima in una guerra è la verità. La cosa è senz’altro vera, e a buona ragione in ogni conflitto può essere sostenuta da entrambe le parti. Questo se per verità si intende numero di morti, numero di feriti, numero di prigionieri… Ma se anche si arrivasse a comprovare una cifra piuttosto che l’altra, la verità sarebbe ancora lontana.

    Perché la verità è sempre verità di qualcuno. Non voglio qui esaltare un relativismo estremo che non mi appartiene, intendo solo rendere ragione del punto di vista di ognuno di noi, che è unico, irripetibile e soprattutto inevitabile. Il punto di vista si chiama punto proprio perché è uno solo e situato in un luogo solo. Guardare obiettivamente gli eventi significa pur sempre con i propri occhi. Forse allora la verità, più che un numero di morti o di feriti, è verità di relazione tra noi e ciò che guardiamo.
    Questa è, o dovrebbe essere, una delle componenti fondamentali del cinema. La cui differenza dalla televisione consiste proprio in questo: nel fatto che mentre la televisione mostra le cose, il cinema mostra uno sguardo.

    Hotel Rwanda mi ha molto colpito. Perché a dispetto del tema fortissimo, degli eventi infernali che racconta, rimane un film debole. A dirla tutta, rimane un telefilm. La storia c’è ma lo sguardo latita. Intimorito dall’entità del tema, è come se Terry George rinunciasse a se stesso.

    Esistono nelle storie diversi centri di forza. Uno di essi è il centro focale. La storia dell’eccidio del Rwanda non è raccontata come in un telegiornale, ma è la storia di un uomo che gestisce un Hotel e che nel mezzo della strage lo usa per salvare quante più persone possibile. Quest’uomo è il centro focale del film, la lente attraverso la quale osserviamo la storia. Questo centro, però, deve appunto costituire non solo una focale, ma anche uno sguardo, polarizzato e spiccato, insomma la nostra guida. E… questo in Hotel Rwanda non avviene. Perché il personaggio non c’è. C’è un uomo che si dispera per la propria famiglia, per la propria gente, esattamente come noi immaginiamo che qualunque altro uomo farebbe. Non c’è conoscenza profonda di chi è la persona, ma solo di ciò che ha fatto. Così, tra un atto eroico e un pianto disperato, tra una corsa e una riflessione, il film scivola seguendo gli eventi e mai tagliandoli con incisione e con precisione, mai levigandoli con un’intenzione che vada oltre il racconto della vicenda.

    Un film utile, a mio avviso, per riflettere sul fatto che gli eventi di per sé non bastano mai. Non costituiscono una storia né tantomeno una storia forte. Quando fermiamo qualcuno per raccontargli qualcosa, nel nostro parlare c’è sempre un’intenzione, un’emozione che da sola sta dicendo: ecco perché vale la pena che io ti racconti questi fatti.

    E’ un’energia, come spesso ripeto in queste pagine, un regalo. Il cinema è un regalo. Va fatto con generosità inconsciente e folle. E anche con molto coraggio. Il cuore, però, si trova sempre nelle persone, non nei grandi fatti. Per questo sono convinto che l’assioma di partenza debba essere diverso da quello del film di George. Non un film sul Rwanda, ma su una persona straordinaria che ha compiuto qualcosa di straordinario. La grande storia è lo sfondo alla focale drammatica del personaggio. Mi viene in mente Schindler quando comincia a capire qualcosa guardando una retata e nel mezzo vede la bambina con la gonna rossa. La ricordiamo tutti perché va al cuore di Schindler e quindi anche al nostro. Siamo in linea con lui, collegati emotivamente. E’ un uomo, non un pezzo di storia.

    Mi viene da pensare che per non fare della verità la prima vittima, bisogna amare e dire il proprio punto di vista, anzi cercare di renderlo per tutti il più chiaro possibile.    

0 risposte

  1. Leggo la tua radiografia e, siccome ti credo, ti domando: se il film è debole perchè durante tutta la proiezione, e ancora oggi a distanza di 2 anni, sento così forte il terrore di quella guerra? Perchè gli stati d’animo dei protagonisti mi hanno coinvolto così tanto da pensare di provare le stesse loro sensazioni e da esserne sconvolta al solo pensiero? La debolezza che argomenti, non può nascere dalla scelta di voler far emergere la drammatica storia di un uomo qualunque in un contesto folle?

  2. Grazie per questo commento ! Intanto dirò che l’unica cosa che possiamo dire con una certa sicurezza è come è stata la nostra relazione con il film. “Debole” significa alla fine “debole” secondo me. Però tu dici bene: “sento così forte il terrore di quella guerra”. Questo è vero. Ma non dell’esperienza di quell’uomo in quella guerra. Che però era ciò che il film prometteva di raccontare (vedi la locandina ? E’ esplicativa e corretta: il centro focale è lui. Quando sentiamo parlare di qualcosa di forte normalmente la nostra reazione è forte perché è relativa al tema, indipendentemente dal livello e dal cuore del racconto. Perché non un documentario se il film doveva essere così ? Ti do un’altra dritta di lavoro analogo. “In my country”. Stesso problema. Ma, torno a ripetere, questo è un sito in cui ognuno può portare avanti la propria idea etica ed estetica di cinema e di comunicazione. E naturalmente questo significa che io sono solo il titolare del sito, non delle idee “giuste”. Non ce ne sono, secondo me. Ci sono le nostre, ed è bello discuterle come mi hai dato l’occasione di fare. a presto !

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