Ho visto questo film una settimana fa. Poi un momento caotico di lavoro mi ha impedito di scriverne per qualche giorno. Ma vale la pena di riflettere su questa pellicola d’animazione che sta avendo tanto successo. La storia è presto detta: un bosco si risveglia dal letargo e si riscopre giardinetto costretto fra mille case. Un animale estraneo, per interesse personale, convince gli abitanti – turbati dalla nuova situazione – a procacciarsi il cibo sottraendolo agli umani. E gli animaletti diventano una vera e propria gang. Gli spunti, fra citazioni e messaggi politici, etici, morali, sono fin troppi. E non mi ci soffermo perché vi è un aspetto che mi ha colpito di più.

 

 

    Vorrei radiografare il personaggio della tartaruga. Vecchia, lenta, saggia, incarna la storia e la memoria, le radici e la provenienza interiore di tutta la famiglia del bosco. Ammonisce, rammenta, e difficilmente si allontana dal territorio concreto e ideale di cui fa parte.  Fuori, oltre la siepe, sta il mondo degli uomini. Definita la differenza tra i due mondi con una battuta semplice e a prova di bambino: “Noi mangiamo per vivere, gli umani vivono per mangiare” (i bambini ridono, ma all’intervallo chiedono i pop corn…) le pedine sono posate sulla scacchiera. Dentro la siepe c’è il bene, oltre la siepe il male. Dentro si muore di fame, fuori si può sopravvivere. Per leggero che possa sembrare, La Gang del Bosco pone i bambini di fronte a un dilemma molto serio, per niente risolto nella coscienza dei genitori che li accompagnano.

    Ed ecco che spunta la tartaruga. Mentore, valore di riferimento di tutta la comunità, è corazzata con un guscio nel quale spesso si rintana. Il guscio è una difesa rigida, antica, immutabile, non viva, che non può essere scalfita. E’ la legge. Sono le norme dietro le quali spesso può capitare di nascondersi a fronte di domande inquietanti poste da menti molto giovani (è giusto uscire dal territorio del bene per entrare in quello del male se questo è l’unico modo per sopravvivere ? Che cosa diventeremo poi ? Saremo ancora noi ?). Nel disorientamento etico di oggi, questa tartaruga è quasi commovente: i colpi della vita, e cioè i ruzzoloni che le varie imprese le fanno fare, la sgusciano numerose volte, e mostrano il suo corpicino fragile, molle, indifeso. Dolcissimo. E’ quel cuore che comunque pulsa dentro ad ogni mentore, che spesso dal guscio delle regole è protetto ma più spesso incastrato. Che trova se stesso nella misura in cui si perde, si ricostruisce, si sfila e si reinfila.

    Per trovare risposte a determinate domande è inevitabile uscire da se stessi, rischiare la vita, mettersi in gioco totalmente. E se è vero che il finale tranquillizza i piccoli spettatori, non cancella comunque il percorso che è stato fatto per arrivarci. Verranno anni per finali diversi, altri film per quando saranno più grandi. Ma questa tartaruga è centrale anche perché si tratta di un mentore che i bambini trovano simpatico. Cosa anomala per un ruolo così scomodo. Sappiamo bene com’è finita al Grillo Parlante di Pinocchio. E chi ha figli sa che cosa significa tentare di correggere, di aiutare a capire…

    Tecnicamente non si può non chiedersi da dove arrivi questa simpatia che la tartaruga ispira immediatamente. La risposta credo sia semplicemente nella restrizione del campo d’azione. E’ evidente da subito che l’animaletto non possa nuocere ad alcuno. Non potrà mai tirare una sberla, è troppo lento. Non urlerà, è troppo fragile e debole. Non insulterà, è troppo innocente e pulito. Non imporrà le proprie decisioni, è troppo piccolo e solo. Insomma, la tartaruga è un genitore disinnescato. Semplice ma geniale. Tutto il bene del mentore senza le sanzioni, senza la violenza, senza lo stress che un genitore normalmente provoca in un figlio piccolo. E, dettaglio non da poco, un genitore messo in crisi, che crede, abita e si muove con il mondo di valori che si porta appresso, ma che di fronte alle vicende più varie è capace di uscirne per rientrarci diverso, con un contatto pieno, rischioso e nuovo con la realtà della vita.

0 risposte

  1. scusa giò abuso del post relativo a questo film (che prima o poi certamente arriverà anche in casa mia) ma ci tenevo a dirti che l’altra sera ho visto “Debito di sangue” di Clint Eastwood (sai che ho una antica passione per lui…):bè la prima cosa che mi è venuta in mente alla fine del film è stata la tua lezione di sceneggiatura che ho letto sul tuo blog qualche tempo fa a proposito della struttura (tipicamente americana) inizio=descrizione di una situazione e presentazione di un personaggio, sviluppo=eventi/azioni (che interagiscono ed influenzano nelle scelte il personaggio), finale=nascita di una situazione nuova. Credo che questo rappresenti proprio un film-esempio di una tale struttura;se non lo conosci prova a vederlo quando puoi (no, così o ti vengono grossissimi dubbi sulla tua capacità di insegnamento – che è il mio obiettivo minimo – oppure mi puoi pure mandarci a……) ciao gigi

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