Ho visto questo film in compagnia di Giada, mia moglie, che è un’accanita fan del romanzo di Jane Austen da cui è tratto. Pare l’abbia letto due volte. Dettaglio che mi piace riferire perché parte integrante della riflessione che mi è nata spontanea alla fine del film. Che cos’è una storia d’amore ? E’ un affare terribilmente complicato, per le declinazioni infinite di cui è passibile. Diciamo che ci sono delle soglie, dei livelli di profondità, e quindi di bellezza, che fanno di Romeo e Giulietta una cosa e di un film per teenagers un’altra.
Queste soglie sono tracciate dalla profondità del desiderio. Come sempre nei film del resto. Nei film d’amore c’è una variante che complica la cosa. Perché desiderare un’altra persona non è come desiderare una cosa o un traguardo. Si tratta pur sempre di arrivare alle soglie della risposta dell’altro. Ottenerla è sempre un azzardo. Un rischio in più. Significa che mentre in una storia normale si racconta del desiderio di una persona di raggiungere qualcosa, nella storia d’amore il minimo è raccontare la storia di due personaggi con i loro desideri incrociati, i loro ostacoli, le loro azioni. Non è poco: se avevate 60 pagine di secondo atto per il conflitto del vostro protagonista con il mondo, adesso ne avete 30 per l’uno e 30 per l’altro, con pochi margini di sbilanciamento.
Significa due desideri, due linee d’azione, due fatal flaw. La storia d’amore è tutta doppia e quindi lo spazio narrativo è ridotto alla metà. Per di più, per venire al film in questione, se le storie d’amore sono tante e parallele, il tempo a disposizione per far arrivare al cuore – luogo determinante in questo tipo di vicende – le emozioni, si decima rapidamente.
Se il momento di svolta che chiude il primo atto è il frutto di una pressione sul protagonista, di una tenaglia che gli si stringe addosso, bisognerà dare più importanza a una delle storie rispetto alle altre (in questo caso a quella di Lizzie) se vogliamo che il primo atto si chiuda con una dominante che imposti il secondo. Se vogliamo, quindi, che il film abbia la spina dorsale non frantumata. Il problema di Orgoglio e Pregiudizio è a mio avviso già qui. Perché il primo atto deve impostare, seminare, attivare troppe storie, troppe intensità differenti, troppe vicende tutte di cuore. E uno si perde perché non si può spendere più di quel che si ha. Mi spiego.
Davanti a un film comico possiamo andare avanti a ridere per ore. Non ci succede nulla perché ridere è giudicare le cose. E’ un’operazione più cerebrale che emozionale. Ma di fronte a un film drammatico, sentimentale, ci viene richiesto qualcosa di completamente diverso: condividere. Se non stiamo con la protagonista non stiamo da nessuna parte. Anzi con i protagonisti, entrambi positivi, che lottano contro gli ostacoli che la vita pone al loro amore. Una simile partecipazione da parte del pubblico va gestita, coltivata, amministrata con grandissima cautela. Quello che il nostro pubblico vorrà non sarà giudicare freddamente, ma vivere e poi rivivere (ecco perché ritengo significativo il fatto che Giada abbia riletto: perché il pubblico vuole sempre ripercorrere le emozioni che ha amato).
Al momento dell’inciting, in chiusa di primo atto, lui confessa il suo amore a lei. Ma noi non sentiamo quella liberazione che dovremmo sentire. Perché non abbiamo vissuto fino in fondo il suo dramma, distratti come siamo stati da altre tre storie d’amore che partivano. Jane Austen aveva una grande massa narrativa per seminare bene ogni linea, per farla fiorire, per gestirla con colori e suoni propri. Un film fa fatica a fare tutto questo a meno che non trovi una lingua tutta sua, diversa e geniale, per raccontare la storia.
Non puoi mettere un carico da tre tonnellate su un carrello che regge dieci chili. Se la tua forma linguistica è un multitrama – perché così è nel caso del film – non puoi pensare che su ogni linea potrai caricare un peso colossale. Devi dividere, perché la gente non avrà la forza di condividere tutte quelle emozioni. A volte penso che il cinema, sì, dopo tutto il talento, la poesia, la bellezza, sia anche ed essenzialmente un fatto di naturale buon senso.