Una delle cose che ripeto più spesso, anche in questo piccolo spazio, è che una storia è sempre la storia di qualcuno. Quel qualcuno che assegna valore ai fatti e nel quale ci identifichiamo. Del quale assorbiamo le proiezioni e le emozioni, sicché la sua storia – per la durata del film – diventa anche la nostra. Quando sentiamo il sentire di un altro, si chiama empatia. Fare esperienza di un’esperienza che non è la nostra. L’ultimo film di Fincher sembra sfidare questo presupposto di funzionamento narrativo. Perché il mondo algido e livido che ci presenta non favorisce la nascita di alcun rapporto emotivo fra noi e i personaggi. E nemmeno fra un personaggio e l’altro. Alla fine non sai cosa speri. Non sai per chi fare il tifo. Non sai chi saresti all’interno della storia. Fondamentalmente perché l’interiorità dei personaggi è compressa e nascosta da qualche parte.

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