Certe volte il segno distintivo di un film lo individui nel tipo di ostacoli che mette sul percorso del protagonista. E alla fine credo che il segno distintivo del cinema di Ken Loach sia che l’ostacolo è sempre dato dalla difficoltà del contesto sociale. Lavoro, soldi e disagio nel suo cinema prevalgono su turbamenti del cuore, crisi esistenziali e maturazioni profonde. C’è quindi già per indole innata una maggiore attenzione al contesto che al cuore del personaggio.

    Solitamente, e anche in questo caso, Ken Loach convince comunque, perché è formidabile il suo lavoro sulla non – recitazione degli attori. (A questo proposito torno sul tema del nostro cinema: ma perché Ken Loach prende Kierston Wareing e Juliet Ellis,  due illustri sconosciute, e nel suo film sono bravissime ? Fortuna ? O logiche di produzione che tengono un po’ meno conto degli amici da piazzare? Non si trovano in Italia due sconosciute brave ?) Questo lavoro di verità sugli attori gli consente di far sentire il pubblico sempre in mezzo alla scena, e l’interiorità magari non così approfondita della sceneggiatura viene abilmente compensata dall’immediatezza e dalla verità delle parole e dei silenzi.

    In questo film mi sembra che ci sia un forte riferimento a una tappa del viaggio dell’eroe classico, più specificamente dell’eroina classica: la lotta contro il drago a due teste, dove una testa rappresenta la famiglia e l’altra la carriera. Un tipo di lotta che una marea di donne si trova quotidianamente a combattere. Domare entrambe le cose senza perdere su nessuno dei due fronti fa di una donna una vera eroina. 

    In questo caso, la protagonista ha un figlio ed è senza marito. Il figlio è “gestito” dai nonni e vive da loro: la madre è troppo presa nella realizzazione di un’agenzia di lavoro temporaneo che funzioni e che le dia una stabilità economica, ed è tutta assorbita dall’idea di fare qualcosa di buono nel mondo. Questo è un momento del film in cui la scommessa della sceneggiatura si fa ardita. Perchè difficilmente si entra in empatia con una madre che, potendolo fare, non torna nella casa in cui vive suo figlio nemmeno per dormire.

    Così, questo figlio è in balìa delle proprie violenze scolastiche, dei suoi colloqui sempre da ultima spiaggia con i nonni, gli psicologi, i presidi… e questa madre non vuole o non riesce a entrare in contatto con lui. Finché in una scena colpevolmente poco credibile, dovendo passare con il bambino quattro giorni, alla prima sera lo manda ad aprire la porta di casa dove qualcuno ha bussato perché non vuole fermare il videoregistratore proprio sul più bello. Se già prima era difficile entrare in contatto con questa eroina, a questo punto del film il pubblico se ne distanzia nettamente. Ma continua a fare il tifo per lei.

    Difatti nel complesso sono convinto che il film piacerà. Magari non sarà uno dei più grandi successi di Loach ma funzionerà. Però… queste latitanze di sceneggiatura negli approfondimenti sono davvero un peccato. Diciamo che quegli ostacoli di cui dicevo all’inizio, e che Loach identifica spesso con il sociale, non riescono in questo film a costituire una linea di pressione precisa, che incida in un punto preciso del personaggio, che ce lo mostri per quello che è nella sua intimità. Continuiamo a non capire perché la protagonista non si prenda un po’ più cura di questo figlio, rimaniamo basiti di fronte al suo progressivo cinismo, che la porta a mollare i riferimenti della giusta causa per sposare quelli del business.

    Sembra, più che un personaggio, una funzione drammaturgica che serve a Loach per dimostrare un teorema. Nei film a tesi spesso succede così. L’ultimo di grande successo ad avere questo problema era stato, secondo me, Match Point di Woody Allen. Anche lì si sapeva dall’inizio come sarebbe andata e il film non faceva che sviluppare un teorema. Anche se si parla di  cose private non è detto che la sceneggiatura sappia diventare intima. E tuttavia Match Point andò benissimo. Forse piaceva il teorema, forse era il momento buono per enunciarlo. Ma sono convinto che quel film invecchierà presto. 

    Rimane però quel tocco di Loach che è inconfondibile. Quella camera così vicina ai suoi personaggi, così partecipe del dramma che ha davanti. E questo è bello. Soprattutto perché anche in questo film ha saputo rasentare i muri sporchi, gli odori, le miserie, rimanendo sempre cinema, non diventando mai inchiesta giornalistica o scoop, o film di ricerca e d’avanguardia (che più vecchia non si può) con macchina a mano tremebonda per far capire che si tratta di cine-verità.

    Un signore vero, che ha girato in modo persino affascinante i sobborghi della povertà e dell’immigrazione, una sceneggiatura che però non incide mai sotto la pelle. E alla fine, che ci piaccia o no, dalle storie è il sangue delle cose che vogliamo.

     

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