Mi piacciono sempre di più i silenzi. Anche quelli imbarazzati, quando la gente ha finito i convenevoli e non sa più cosa dire. Perché penso che in realtà quell’imbarazzo nasca proprio dal fatto che sapremmo esattamente cosa dire. Dopo i ciao come stai inizierebbe la verità. Ma la verità non si può. Non si può quasi mai. Quindi silenzio.
Antonioni questi silenzi li aveva cercati, voluti. Non ha fatto altro che studiarli. La soglia della verità. Non dava lo stop per un’infinità di tempo oltre la fine dei dialoghi scritti. Gli attori non sapevano cosa fare. Lo sfinimento del personaggio. Inseguirlo oltre le parole, oltre il provato, oltre quel che si era deciso insieme per raccordare campo e controcampo.
L’amore è un azzardo. Brucia forze, tempo e pellicola. E’ un pensiero sul cinema ma è soprattutto un pensiero sulla vita. C’è un modo di fare film perfetti e di fare perfetta la vita. Analizzare, pianificare, realizzare. E c’è un modo di fare film sbagliati. Sentire, cercare, amare quello che si troverà per come sarà.
Antonioni decideva molte cose proprio per potersi affacciare sull’ignoto. Lo trovo un modo coraggioso e splendido di pensare la vita. Lavorare duro per aprire le porte a qualunque luce. E accettare la luce che verrà perché sarà quella giusta per noi, per il nostro film e per la nostra storia.
Mi piacciono i silenzi perché non sono reazionari, sono pericolosi, stanno in bilico, sono opinabili, imperscrutabili e nella loro volatilità hanno il peso della pietra scolpita. I momenti in ascensore, in cui passi le chiavi fra le dita e ti ci concentri come fossero pepite d’oro pur di non guardare il condomino che sale con te. Stupendo. E’ una dichiarazione di impotenza totale. Non ci guardiamo più.
Mi piace anche il contrario perché è la stessa cosa. Mi piace il cinema di Woody Allen, perché la sua cascata di parole è la stessa cascata di silenzio di Antonioni. Sono due versanti della medesima montagna di paura della verità. Mi piace la loro camera così diversa che osserva in modi diversi due strategie della stessa paura.
E sì. Mi piace l’indigestione degli occhi che ti provoca Bernardo Bertolucci. L’ho odiato per le sue immagini così perfette, ostentate e piene. Che cavolo le faceva a fare tutte quelle cartoline? L’ho pensato per anni. Perché pensavo al cinema in termini di forza consapevole, di scelta estetica, del resto è questo che si insegna ancora nelle scuole. E invece ho riscoperto Bertolucci, Antonioni e Allen quando ho ripensato al cinema in termini di debolezza, di non sapere, di ciglio del burrone.
Le immagini di Bertolucci o sono piene di bellezza – e allora sono sganciate dalle storie che raccontano, avulse e pubblicitarie – o sono organiche al racconto. E allora si entra nel regno della paura, della vera inquietudine. La paura di Bertolucci è il vuoto. La sua cascata di immagini così importanti è la bulimia degli occhi che temono il buio. Ancora. Ancora. Ancora luce. Ancora bellezza perché la bellezza ci salverà.
Più passano gli anni mi accorgo che non c’è nessun bisogno di insegnare il cinema. Tantomeno di spiegare “come si fa” – il che presupporrebbe un “come non si fa”. Tendiamo a guardare il cinema per i risultati che raggiunge e non per i percorsi che compie. In altre parole, possiamo oggi omaggiare la perfezione e la bellezza delle immagini di Bertolucci, oppure rimanere in ascolto del suo lato sottile, silenzioso e coperto: la fragilità. La paura del buio, del nulla, del vuoto che lo ha spinto a correre verso tanto splendore. E’ una cosa semplice che non ho capito per moltissimi anni.
Dietro i traguardi ci sono i percorsi, dietro le soluzioni gli errori, dietro i trionfi le paure. Cascate di silenzi, di parole, di luce. Cinema allo stato puro. Grazie Bertolucci per quello che (non) ci hai mostrato e che si vede chiarissimo in tutti i tuoi film.
Allora. L’ultimo tango è finito. Iniziano le danze. Buon viaggio.