Doveva essere il 2004. Se non mi sbaglio. Giugno. Genovafilmfestival. Lui era ospite d’onore. Noi eravamo in concorso con “Una cosa normale”. Lo incontrai nella hall dell’albergo nel quale ci avevano messi. Seduto a parte con qualche amico, faceva due chiacchiere. Lo vidi e pensai che non avrei mai voluto disturbarlo. Chissà quanti come me… e che stress per il pover’uomo. Tutti uguali, che vogliono conoscerlo, salutarlo, stringergli la mano. Da non poterne più alla sua età. Ci sarà mai stato un giorno in cui non gli sia capitato in tutta la vita da quando è diventato Mario Monicelli? Sempre gente che… ma io no. Non lo farò, penso.
Per cui non capisco bene perché le mie gambe procedano con inaccettabile risolutezza verso di lui. So che mi ritrovo al limite dei divanetti sui quali lui sta parlando. Si ferma e mi guarda. Le parole mi escono automatiche di bocca. “Mi scusi, ma non potevo non stringerle la mano.” Lui mi sorride con una benevolenza luminosa. Mi tende la mano e mi dice: “Piacere, come ti chiami”. – “Giovanni Covini. Sono un filmaker. Mi proiettano oggi. Ma visto che lei sarà in sala credo che impedirò la proiezione”. Lui ride. “E perché mai?”
Pomeriggio e sera. Premiazione. Vinciamo il premio Shortvillage. E lo ritiro davanti a lui. Riesco solo a dirgli: “No ecco guardi, ritirare un premio per un corto davanti a lei è una cosa impossibile”. E lui ride. Poi la sera si cena. Allo stesso tavolo ci sono Monicelli e Claudio G. Fava. Monicelli parla del nuovo cinema italiano. E non capisce. Si domanda perché tutti questi primi piani. Perché tutti questi dettagli. Per far vedere quanto siamo bravi a girare? Qual è la vera ragione di questo? Non si dà pace. “Un attore deve recitare con tutto il corpo. Vi prego, non fate tutti questi primi piani. Gli attori di oggi non sanno più recitare perché voi gli fate soltanto fare le facce”.
Con tutto il corpo. Se si guardano i suoi film – e non solo – la cosa è evidente. Lo ascolto in silenzio e non rispondo. Non si risponde a un maestro. Si ascolta e si impara. E poi si rimane se stessi comunque. Capisco – almeno credo – la sua perplessità. La focale più o meno fissa con cui il neorealismo ha raccontato la vita – che è la focale media con cui vediamo le cose – per lui è stata più che una lingua. Era un’idea di cinema e anche un’idea di vita. Ed è senz’altro vero che quella generazione di sceneggiatori, di attori e di registi in questo momento non c’è e non c’è più da molti anni. Forse la linea si è interrotta nel 1960, con La Ciociara di De Sica. O l’anno prima con La Grande Guerra. Ma indubbiamente è vero: il corpo degli attori era pieno di vita ed era totale. Era… vero.
Anche il corpo degli animali lo era. Alludo all’inizio di Un borghese piccolo piccolo, che forse dei suoi è il film che amo di più. Alberto Sordi pesca un pesce nel fiume. E mentre parla con il figlio che lo sta guardando, per togliergli l’amo di bocca e finirlo lo maciulla con una pietra, con colpi inconsapevoli e ripetuti. Uno spaccato di crudeltà e di ignoranza, una scena talmente vera… che oggi non potresti girarla più. Animalisti di ogni parte del mondo si solleverebbero. Anche se il pesce che usa Monicellli era probabilmente morto. Ma la cruenza che rimandava a una rabbia sorda e inespressa del personaggio era tutta lì. Meravigliosa, tagliente. Vera. Con tutto il corpo di Sordi e con tutto il corpo del pesce.
Conosceva la ferocia e l’orrore, Monicelli. Nessun uomo può arrivare alla sua età senza averla conosciuta. E chiarito questo, la raccontava e ne sorrideva. Perché i suoi film non si prendono sul serio, non vogliono cambiare il mondo, ci vivono dentro e lo amano anche quando lo deridono. Sono pieni di compassione e di gioia di vivere.
No, non mi riconosco nelle parole del maestro. Non dico di me – che sarebbe ridicolo – ma nemmeno rispetto al nostro nuovo cinema. Oggi fare cinema non è più essere messi davanti alla vita, non è un’esperienza visiva. Non solo, credo. Fare cinema oggi penso sia qualcosa di più somigliante ad un’esperienza immersiva. Dentro le cose, dentro il cuore. Con un rapporto con i personaggi di tipo intimo e introspettivo. Esperienze visive che la vita normale non può offrirci. Essere lontanissimi, vicinissimi, muoverci lentissimi o velocissimi. Scandagliare l’animo a pezzetti. Anche questa fase passerà, l’uomo cammina e cambia.
E anche riguardo agli attori e agli sceneggiatori… erano strepitosi. Unici. Mitici, ormai. Ma… oggi non si potrebbe più recitare come loro, non accetteremmo più battute come quelle, non si potrebbe più girare così. E’ tutto cambiato e le parole di Monicelli risuonano dentro di me come una memoria preziosa perché sono una minuscola parte della sua eredità ed ho avuto il privilegio di coglierla alla fonte dai suoi occhi vivissimi e arguti, ma certo non come un manifesto attuale di cinema. Ricordatevi del corpo. Della fisicità dell’esperienza. Della completezza della vita.
E con tutto il corpo se n’è andato. Saltando giù, passando di là. Senza funerali. Ora spero che gli insegnanti, i professori, i palinsesti televisivi, i dibattiti… non comincino con Monicelli. Non facciamo quella cosa triste di mettere in onda i suoi film perché è morto. Se guardiamo Monicelli facciamolo perché è vivo. Quindi non c’è bisogno di abbuffate di film per poi passare direttamente all’oblio. Sarebbe bello riuscire a tenere luminosa la sua esperienza attraverso il nostro lavoro. Raccontare la vita senza pietà, amandola tutta senza buoni e cattivi, senza sconti e senza risentimento.
Porto con me la sua stretta di mano luminosa e forte. I suoi occhi puntuti come spilli, la sua aria sempre divertita da tutto. Quegli occhi guardavano in macchina mentre Sordi maciullava il pesce, hanno visto in macchina tutta La Grande Guerra. Niente commenti sulla sua scelta finale. Non qui. Non li pubblicherei.
Ricordo bene anch’io..soprattutto nella hall dell’albergo quando tu mi dicesti – appena notato – “abbiamo davanti l’uomo che ha girato la Grande Guerra”, poi silenzio.
Un colpo di…privilegio, lo ammetto.
gigi
Anche io l’ho incontrato e, anche se in un contesto completamente differente, è stato uno di quei momenti in cui avverti che chi ti trovi davanti è il Passato nella sua forma più autoritaria e possente. E però un uomo, vivo e lucido, forte. Un incontro di quelli che non si possono dimenticare.
splendide parole le tue. Grazie.