Domani è un giorno importante per me. Sono molto emozionato al pensiero e molto felice per questa occasione: inizierò il mio percorso di lezioni alla Civica di Cinema di Milano. Mi è stato offerto di insegnare linguaggio cinematografico al primo anno. Per me è congenito non sentirmi pronto mai e questa volta non fa eccezione. Per cui accumulo pensieri.
Il primo – e per me il più importante – è farsi un’idea di cosa sia un linguaggio in sé. Credo che la somma di tutti gli elementi grammaticali della lingua non faccia il linguaggio, altrimenti ce ne sarebbe uno solo. E se il linguaggio non sta nella somma delle regole della lingua e ognuno di noi ha il proprio – diverso da quello di chiunque altro – significa che il linguaggio è qualcosa che si trova nella terra comune delle regole della lingua valide per tutti e del punto di vista sul mondo valido solo per noi.
Se quando parliamo usiamo il nostro linguaggio, il nostro comunicare non è in relazione diretta con la realtà, ma con il nostro punto di vista sulla realtà. In altre parole il linguaggio siamo noi estroflessi nelle nostre parole o nelle nostre immagini. Siamo noi diventati parole e forma. Anzi, direi che il linguaggio usato in modo consapevole è la forma che coincide con la sostanza.
Avevo letto una definizione splendida in merito: il linguaggio è il pollice opponibile del pensiero per prendere la realtà. Non la grammatica, quella non prende niente. Il linguaggio sì. La luce nuova che getta questa definizione sta nel fatto che ci fa capire che il linguaggio è un’azione. Un’azione drammatica vera e propria attraverso la quale intendiamo raggiungere qualcosa che ci manca, come tutte le azioni fanno.
Ogni carrellata, ogni panoramica, ogni stacco, ogni movimento di macchina sono la risposta a un desiderio profondo: quello di portare il nostro occhio – e la nostra emotività, il nostro cuore – da un punto a un altro punto, da un personaggio a un altro personaggio, da un clima a un altro clima.
Forse così diventa più facile capire quanto sia forte l’inversione di ragionamento fra cinema e televisione: la televisione mostra le cose – pur avendo essa stessa un linguaggio preciso, ma che è il linguaggio della televisione e non del singolo autore, non almeno in modo significativo, e quindi più che un linguaggio televisivo mi sembra che esista una grammatica televisiva – mentre il cinema mostra lo sguardo con cui guardiamo le cose.
Un’ultima parola sulla grammatica. E’ paradossale ma più passa il tempo più trovo che la grammatica sia affascinante. Non so se per l’influenza di Chomsky, dal quale ho imparato che la grammatica testimonia la capacità dell’uomo di fare tesoro dell’esperienza, cioè di costituire una serie di regole che rendano più efficace la comunicazione, ma di fatto vedo nelle grammatiche la paziente disposizione della tavolozza di tutti i colori possibili, elemento per elemento, disposti con sublime neutralità, pronti per essere utilizzati, combinati, deformati dalla violenza viva del punto di vista di chi li utilizza.
Continuo a cogitare, chissà che verrà fuori… nel frattempo mi viene in mente Francesca.
Che cosa fa un regista ? mi aveva chiesto qualche mese fa. Spaventato dalla domanda improvvisa avevo tergiversato: Decide dove mettere la macchina.
Ah – perplessa lei – quindi fa il parcheggiatore ?
Credo che comincerò così…
Sento una fastidiosa invidia per i tuoi allievi…. buon lavoro!
da ma tra….PARLA CHIARO!!
…un abbraccio come augurio. gigi.
è senz’altro un ottimo inizio!!! buon lavoro!!!! e guarda che altri allievi ti aspettano a stratford……..
Mi piacerebbe vedere.
Fantastico di una grammatica delle immagini in cui le parole sono forme e le forme evocano parole.
Allora l’occhio suggerirebbe al resto del corpo una lingua universale, condivisa.
C’è una soggettività dei colori, delle linee. Lo so.
Ma mi piacerebbe vedere, come si potrebbe guardare da una finestra, il panorama interiore dell’uomo, senza commento.
Come in un film muto, scorrere infiniti fotogrammi di esistenza, ognuno diverso e uguale e riconoscermi senza dover appartenere.
Mi piacerebbe guardare e non stancarmi mai di farlo, ad libitum, senza dover entrare nell’ossessione banale di vincoli comunicativi o interpretazioni obbligatorie.
Essere me stessa riflessa nella moltitudine e acquisire una comprensione non culturale, non sociale, non suggerita.
Avere possibilità di contatto senza dover sottostare a regole impostate da altri. Senza manipolazione.
Tu puoi far aprire gli occhi, indicare, circoscrivere, delineare e lasciare liberi di comprendere.
“Il vuoto è la forma, la forma è il vuoto”.
In bocca al lupo.
Per essere pronto, sei pronto … la materia la sai … studiare .. hai studiato! I compiti li hai fatti! Che dire … Mer..? Baci Evelina