Il mio amico ordina un’insalata mista chiusa in una busta di plastica trasparente. Ci sediamo all’aperto, nel friggere di voci da pausa pranzo degli studenti della Bocconi. In un’altra vita quello che adesso ritengo un amico era stato un mio allievo. Oggi sa che in realtà non insegno, quindi non ho allievi. Sto cercando, per cui anche se compilo un registro e rispondono presente, li considero tutti collaboratori di ricerca. Per questo, nonostante siano passati pochi mesi da allora, ritengo il tempo in cui l’amico era un allievo un’altra vita. Perché lui è uno che questa ricerca con collaboratori l’ha capita.
Apre la sua insalata e ironizza sul fatto che uscire con me a mezzogiorno significhi farsi guardare mentre si mangia. Ormai lo sa, per me solo caffè. Mi parla di molte cose, è un concentrato di energie che a volte si ingorgano per eccesso di voglia di vivere. Piani diversi scintillano per l’attrito: il talento per una meravigliosa carriera cinematografica o teatrale e il progetto di fare il pubblicitario per guadagnare di più – vecchio modo di vedere la pubblicità: oggi far vendere più sottilette fa guadagnare meno di un tempo e lo spessore del lavoro è sovente simile al prodotto in questione. Ma non solo. L’esigenza di una dimensione spirituale nel suo percorso sembra sbattere contro una sottile disillusione sui rapporti umani e sulla vita.
Ora ti faccio vedere una cosa davvero gay – mi dice. Prende il cellulare e mi mostra una galleria di piccole foto di uomini giovani con toraci mediamente importanti. Mi spiega che le foto sono disposte in ordine di prossimità, dal più vicino al più lontano da noi. E’ una App. Una App gay. Se cerchi un po’ di sesso ora, ti connetti e trovi ragazzi in rete per lo stesso motivo. Il più prossimo è a poco più di 100 metri, mostra fiero il torace e guarda cupo in macchina. Ma intorno sono moltissimi. A un rapido sguardo quello che mi colpisce delle foto è una totale mancanza di ironia. Vedi Giovanni – un velo di tristezza negli occhi – hanno provato a farla anche per gli eterosessuali e non ha funzionato. Anche per le lesbiche e non ha funzionato. Una luce minima di tristezza, quasi di vergogna, brilla nel suo sguardo che nasconde un talento raro. Il confronto con gli etero e le lesbiche, nella sua mente, lo vede perdente. Perché è vero che il confronto è l’anticamera del giudizio. E il suo giudizio dice: siamo solo noi, maschi gay, così disperati e affamati? Solo noi così tanti e bisognosi di sesso?
Alle mie spalle si siede una ragazza. Con la coda dell’occhio percepisco solo i capelli lunghi. Dico al mio amico che se adesso mi girassi posando il braccio sullo schienale della mia sedia farei la classica figura del vecchio e patetico etero – pelato – che ci prova con le ragazze. Intendo dirgli che è dura per tutti e che non mi sembra tanto libero nessuno. L’altro giorno ho sentito dire che Disney Channel è il canale preferito dai preti. Ce n’è per tutti mi pare. Ma il rammarico del mio amico mi prende lo stomaco. Una parte di lui rimane a guardare giudice la sua parte nella App e questo gli spegne la luce dentro.
Conosco questo giudice. Lo conosciamo tutti, credo. In me ha avuto un potere paralizzante per anni e torna fuori ancora adesso. Mi viene in mente che potremmo aprire una App per persone che hanno voglia o bisogno di parlare. Lui dice che potrebbe funzionare. Così, uno si confessa ad uno sconosciuto al bar, o ascolta una storia potente all’Esselunga. Gente che si scambia un ascolto disperato e urgente. Poi si saluta, si perde nella propria vita e nel mondo. Ma ti ha dato un’ora di ascolto vero. Sarebbe un mondo migliore credo, perché penso che sia molto simile a quello che cercano i maschi nella App, solo un po’ più centrato e reale.
Il mio amico mi guarda e cerca nei miei occhi il giudice estroflesso che sente dentro. Ma spero che non lo trovi. Gli dico che trovo la storia di questa App tremendamente poetica. Mi guardo intorno e sento che siamo naufraghi. Navighiamo nella vita e nella rete cercando la terra inferma degli incontri occasionali, delle emozioni rapide e brucianti che come un pizzicotto ci facciano di nuovo sentire vivi. Cerchiamo qualcuno che ci tocchi, che ci desideri, che ci guardi. Assuefatti ai surrogati confiniamo ogni idea di amore in una deriva adolescenziale e lontana. Questi siamo noi, è una fotografia del nostro tempo. Oppure non abbiamo nessuna App nel cellulare e moltissime in testa, il sesso non è l’unico approdo di queste solitudini. Sento il declino lento e spietato di un’idea di amore, guardo gli alberi sopra di noi, nel parco vicino alla scuola, e sento questo scampolo di natura in tutta la sua saggezza. La natura con i suoi tempi, il suo silenzio, la sua crudeltà e la sua purezza. E’ davvero un cuore di cui noi siamo diventati l’infarto.
Poi il mio amico sbaglia a buttare la confezione di plastica. E si sporge dentro un cassonetto per recuperarla e buttarla come si deve. Non ci sta a lasciarlo lì, sbagliato e sporco. Non penso niente, solo che siamo ancora vivi, siamo ancora qui. Aggiustiamo la spazzatura per bene, ce ne prendiamo cura. Sopra, le fronde continuano a frusciare.
Impressionante voglia di vita. Molto bello.