Cose leggere, leggerissime. Trattate con una serietà che fa paura. Ancora una volta di fronte ad una comedy costata pochissimi soldi e moltissimo ingegno. Funeral Party è un inno all’intelligenza e alla voglia di raccontare. L’occasione è il party del funerale del padre. Convengono alla cerimonia gli annessi e connessi di tutta la famiglia. Non sto qui a specificare incastri e paradossi, non è questo il punto interessante a mio avviso.
E’ proprio l’idea di film corale che viene gestita in un modo ammirevole. Innanzitutto con un tirante centrale: il figlio scrittore mezzo fallito – contraltare del figlio scrittore di grande successo – con tutto il suo sincero amore per il padre, per la madre, e con tutta la sua sofferenza per il confronto con il fratello. E’ vero che le storie sono poi mille satelliti impazziti e che gli eventi sono rocamboleschi, ma Oz li tiene in mano senza farli sfaldare sotto i colpi delle gag, non mollando mai l’arco di tensione del protagonista. Molti sono i personaggi ma la storia è sempre la storia di qualc-uno.
A questa prima chiarezza se ne aggiunge un’altra. Quella tematica. E qui c’è un altro punto non del tutto scontato in Italia. Che non si può, per il semplice fatto che si sta facendo una commedia, metterci dentro proprio tutto quello che pensiamo faccia ridere. La comedy non è il regno dell’anarchia nel quale chi più ha idee buffe è il benvenuto. Il comico non è il buffo. Uno che scivola su una banana è buffo. Uno che parla con una cadenza dialettale pittoresca può esserlo. Una smorfia anche. Il comico invece è costrutto, senso, direzione. E’ pensiero diretto a colpire un bersaglio in modo per niente pacifico.
Funeral Party ha come tema profondo la necessità di vivere il senso delle cose superandone le apparenze. Non una grande novità, insomma, nemmeno in questo film. Ma un’esecuzione strepitosa. Di fatto, questo padre aveva qualche passione segreta, che non svelo, e che emerge nel corso del funerale. Le persone non sono mai quello che sembrano. Ma i sentimenti che si provano col cuore sono quanto di più autentico possiamo sperimentare. Ecco perché se anche di qualcuno non conosci tutti i sergreti, non significa che l’affetto che ti ci lega sia falso o mal riposto.
Il film inizia con il trasporto della bara nella casa ancora vuota di ospiti. Il figlio chiede che venga aperta e… l’uomo è quello sbagliato. Non si tratta di suo padre. Una gag. Girata bene e recitata divinamente. Ma soprattutto – è quello che mi preme di più – una gag nel solco tematico profondo del film. L’uomo che credevi essere tuo padre era in realtà un uomo diverso. Il fatto che te ne abbiano portato uno sbagliato non fa che rendere concreto un equivoco che esiste comunque. Non si tratta di lui, quella bara non contiene la persona che pensavi.
Più avanti un altro personaggio, che ha il problema di piacere al futuro suocero, si spoglierà completamente in preda ad allucinogeni. Anche in questo caso è attraverso il togliere dei vestiti, dei ruoli, delle coperture, che una verità magari scomoda ma sempre toccante viene fuori. Se vuoi vivere, apri la bara ed esci. Con tutto quello che la bara può significare nelle nostre vite.
Mille trame, mille gag, un ritmo letteralmente forsennato. Ma una chiarezza zen sulla direzione di tutto, sul senso della trama, sul tema, su ogni singolo beat. C’è pensiero in ogni fotogramma. Ci sono attori che si divertono ad apparire brutti, meschini, sporchi e nudi. Semplicemente perché amano il proprio personaggio. C’è ancora una volta un fare seriamente senza prendersi troppo sul serio. E ripenso al nostro cinema, mi è inevitabile. Anche questo film è costato poco. Il problema è… che un film così non arriviamo nemmeno a pensarlo.
a proposito..ti ho inviato l’articolo di tullio kesich…