“Ero su una sponda. Ho preso una nave. E dall’altra parte ho incontrato Maria”. Qualche anno fa mi imbattei in questo esercizio di sceneggiatura. Sviluppare in ogni genere possibile queste tre frasi che corrispondono ai tre atti di una storia. Può essere un horror, se Maria è un mostro,  può essere una commedia sofisticata se Maria è Ninotchka. Può essere tutto. L’importante è capire che nel primo atto sei nella tua normalità, nel secondo affronti i tuoi ostacoli e cambi, nel terzo giungi a un nuovo equilibrio, un’altra sponda nella quale ridefinisci te stesso. Questo sommariamente e schematicamente era il senso dell’esercizio.

    Come non poteva tornarmi in mente dopo il film di Giordana ? Un bambino del ricco nord – est, un viaggio per mare con “l’altro” per definizione, e l’approdo a un’altra riva, la stessa da cui era partita ma ormai non più uguale perché vista con occhi affatto diversi. Nella sceneggiatura poi c’è la firma di Sandro Petraglia,  garanzia – a volte forse anche eccessiva – di organizzazione e funzionalità della scrittura.

    E invece…. voglio soffermarmi solo su uno dei tanti punti del film. E con l’ottica di tentare come al solito una lastra per evidenziare un eventuale problema, non con l’intento di criticare tanto per farlo. Radiografiamo il secondo atto del film. Il viaggio di ritorno e il periodo di permanenza al centro di prima accoglienza. La storia racconta il cambiamento di una famiglia quando si rende conto che tutti i soldi del mondo non ti salvano come la mano di un poveraccio che ti tira fuori dalle acque del mare. In altre parole nessun possesso salva quanto una relazione. La sera prima di imbarcarsi gli adulti si comportano come sempre, troppo sicuri di se stessi, mettendo a rischio i muri di cinta delle proprie vite, matrimonio e famiglia, incuranti del punto di vista di un figlio giovanissimo che vede atteggiamenti che lo feriscono. Bastano due ragazze di passaggio e gli uomini non sono più gli stessi.

    Poi si parte, sicuri della propria imbarcazione, dei propri sistemi di navigazione. E quello che psicologicamente era successo a riva, di fronte alle ragazze, ora succede fisicamente in mare: ci si perde il figlio senza accorgersene. A questo segue un’inversione di rotta della barca – quando si scopre l’assenza del bambino – cui farà specchio un’inversione di rotta psicologica una volta arrivati a terra. Diciamo che la struttura c’è, è fin troppo “ben impostata” per i miei gusti, ma tant’è che funziona benissimo.

    Il bambino, dopo un po’, viene ripescato dal barcone dei clandestini. Entra nel regno dell’incertezza, della paura, dei senza terra. Buongiorno vita, eccoci qua. E’ un momento che deve diventare molto ricco, di grande cambiamento, di grande impatto. E in effetti è anche girato bene, e ben recitato dai giovanissimi attori. Ma… il primo punto è che questo bambino già prima di partire dissentiva dall’atteggiamento dei grandi. Era già un bambino con una sensibilità predisposta a capire più profondamente le cose. Così noi non abbiamo mai la sensazione che cambi, ma che quel tonfo in mare sarebbe dovuto capitare piuttosto al padre o allo zio.  

    E il secondo punto è proprio strutturale. Per tutto il tempo del viaggio sul barcone, un tempo lunghissimo, il film non torna mai sul padre e sullo zio che cercano il ragazzino. Già quando  era caduto in mare, guardando il film pensavo: chissà come mi mostrerà la scoperta della sparizione in un modo che non sia banale, che mi dica qualcosa di specifico, di profondo e di unico su questi adulti. Sono fratelli, tra l’altro, e quindi chissà se uscirà qualcosa sulla loro storia, che mi faccia entrare dentro di loro. Questo è un momento di grande crisi, e crisi significa spaccatura e possibilità. Voglio entrare nella spaccatura e vedere il cuore, se no il cinema a cosa serve ? E invece c’è una scena molto standard, un giro inquieto per la barca, e poi un esterno lontano nel quale si grida: “Vira, vira!” Nient’altro. 

    Per tutto il viaggio di ritorno, non si vedono più. Solo clandestini e barcone. Questo non significa che il film sia scritto male, non esprimo mai giudizi di questo genere. Questo però significa una scelta precisa: che il cinema serve a documentare la realtà di oggi, che serve a mostrare come va il mondo, che serve a fare cronaca e critica della società odierna. E che i personaggi volenti o nolenti devono adeguarsi al nostro scopo. Così, se anche stanno vivendo un momento tremendo della loro vita, nel quale certamente emergerà con chiarezza e profondità chi sono veramente, li teniamo indifferentemente in disparte per qualcosa come mezz’ora. Perché non ci servono e dobbiamo mostrare come si vive veramente in un barcone per clandestini. Su questo, dall’alto del mio non aver girato ancora nulla di significativo, mi permetto di dissentire. La storia, è sempre la storia di qualcuno. Se ti dimentichi di lui, la sua storia non ha più senso. E se è vero che il protagonista è il ragazzino, i suoi genitori e parenti hanno un ruolo enorme nella vicenda, rappresentano tutto un certo tipo di società tra l’altro, e proprio volendo fare attenzione al documentare la realtà davvero mi sarebbe piaciuto conoscerli meglio.

    Esistono storie standard. Insomma, alla fine tutti siamo divorziati o abbiamo amici divorziati. Tutti siamo o conosciamo persone felicemente sposate. Se stiamo ai fatti, i fatti sono tutti standard. Le persone non lo sono mai. Voi, dovendo scrivere, che strada scegliereste ? 

     

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