Leggendo “Prima di sparire” ho pensato spesso al latte macchiato. Versi anche una piccolissima goccia di caffè nel bianco perfetto del latte e il suo colore cambia per sempre. Inseparabilmente. Così, mi dico, in ogni nostro personaggio e in ogni nostra storia, quel che c’è di nostro e quel che c’è di creato si mischiano, ed ogni cosa nostra dà luce alla storia e ogni cosa della storia dice di chi l’ha scritta.

     In questo lavoro di Mauro Covacich, un autore che ho amato moltissimo fin dall’esordio, il latte e il caffè restano separati. Non per un errore e men che meno per inconsapevolezza. Restano separati perché il libro racconta – tra le altre cose – proprio della difficoltà di scrivere un romanzo mentre nella vita reale dell’autore stanno accadendo importanti e dolorose rivoluzioni interne. Diciamo che il latte è la sua vita vera e il caffè il romanzo che dovrebbe scrivere, che di tanto in tanto fa capolino tra le pagine.

     Concettualmente non fa una grinza. Ma l’esperienza fisica della lettura e la percezione di una storia non hanno molto a che vedere con i piani concettuali. E se al fatto che latte e caffè restano separati si aggiunge che l’uno è assai meglio dell’altro, l’avventura diventa altalenante e difficile. La fiction, in parole povere, non regge quasi mai il confronto con la vita vera. In questo caso nemmeno per l’autore sono urgenti allo stesso modo, difatti alla fine il romanzo resta un romanzo non scritto, mentre il diario è appassionato e dettagliato.

     Due parti volutamente scucite, dove il volutamente non basta a renderle funzionali. Questo mi sembra di vedere per quanto riguarda la scatola e i piani narrativi di “Prima di sparire”. Ma ovviamente non c’è solo questo.

    Mauro Covacich rivolge verso se stesso la capacità di scandaglio e di analisi che solitamente sono la forza dei suoi romanzi. Gli aggettivi potrebbero essere tanti, e tanti ne ho letti al riguardo. Spietato, autentico, lucido. E via dicendo. A me viene in mente: preciso. Sono proprio i dettagli, gli scalini minimi del sentimento e delle emozioni. Precisionista, come si definiva Carver. Mentre lo si legge non si fa altro che pensare, “E’ vero accidenti, funziona proprio così. Questo l’ho sentito anch’io, è proprio così, caspita com’è detto bene qui !” E forse cos’altro si vuol chiedere a un autore se non questo: restituirci la vita riletta, e restituircela viva. 

    A me però qualcosa è mancato. Se ripenso alla tazza di latte macchiato, Covacich mi sembra un’ape che cammina sul ciglio del bicchiere, indecisa se lasciarsi tentare o scappare via dalla trappola, se la moglie o Susanna, se il romanzo o la vita, se una casa o se l’altra. E va bene che sia così: le storie vivono dei conflitti che le dilaniano. E nemmeno si chiede una risposta. Ma se un’esperienza è un percorso, quello che mi manca qui è un cambiamento di piano nella domanda. Attraversato e riattraversato più volte il dilemma, siamo sempre in preda al fremente desiderio fisico da una parte e al senso di colpa dall’altra.  E quel che spero sempre in un libro, in un film, e che ho sempre trovato in Covacich, è uno sguardo. Ecco, qui mi manca un salto nel modo di vedere le cose. Mi manca la capacità di un autore – che di solito lo sa fare benissimo – di portarmi via dal mio punto di vista dal ciglio del bicchiere, e di farmi vedere le cose in una prospettiva nuova, anche se non per questo risolutiva.

    Come vede le cose all’inizio così le vede alla fine, dimenandosi e compiacendosi più o meno sottilmente delle proprie incertezze, delle proprie non definizioni, del proprio star male.  Preciso nei dettagli, senza colpi d’ala per cambiare prospettiva e aiutarci a leggere diversamente – non so come, è quel che chiedo a un autore – la questione.

    Il rischio ? Un romanzo quarantenne per definizione. Attorcigliato intorno al proprio ombelico, per celebrare il quale sono convocate vite vere di altre persone – per similarità di ambienti alcune conosciute da me personalmente. Un modo di raccontare se stessi forse anche fulminante per la generazione in questione – di cui faccio parte in pieno – ma del tutto inefficace, temo, per chi oggi ha 30 anni o 50. In ogni caso, un libro come al solito scritto benissimo. Con una capacità di scolpire le immagini e le battute, di gestire i percorsi dei personaggi all’interno delle scene veramente esaltante.

    Alla fine, secondo di me si tratta del lavoro meno brillante di uno degli autori più luminosi del nostro panorama. E ovviamente, non vedo l’ora di leggere il suo prossimo libro. 

0 risposte

  1. Caro Gio,
    aspettavo questo tuo post, anche se già sapevo (a larghe maglie) cosa avresti scritto del libro di Covacich. Volevo solo aggiungere la mia sull’operazione letteraria che lui ha fatto, non tanto sui contenuti, che come sai, non ci possono lasciare indifferenti. Covacich ha in qualche modo raccontato che il romanzo puro, quello di fiction, quello totalmente partorito dalla fantasia del suo autore, non ha più molto da dire. Aggiungo io: stiamo raccontando da troppo sempre le stesse storie, e forse (quello che è peggio), sempre nello stesso modo. Dallo stesso punto di vista. Lui decide di mostrare la ferita, sua e degli altri. Sbatterla in faccia e continuare a ripetere: sanguina davvero. Come certo teatro di una volta o certa arte contemporanea, la body art (lo dice anche e sempre nelle sue interviste). Non è concettualmente un’operazione da poco. In letteratura è forse una delle prime volte che viene così dichiaratamente definita. E, come è successo nelle reazioni che ha avuto, non ha riscosso i successi dei libri precedenti. Siamo disposti a riconscerci nella finzione e non nella realtà? Non lo so. Dal mio punto di vista di lettrice lo scarto c’è. Andare fino in fondo, dice lui, è possibile. Dribblare l’ipocrisia. Fare del male senza morire. Provare dolore senza soccombere. E’ possibile. Questo è il prezzo. Nella storia vera del libro. E nel libro nella vita vera.
    ti abbraccio
    Elisabetta

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