Sapere cosa accadrà fra qualche frazione di secondo. Anticipare il pensiero degli altri. Vedere spazi dove non ce ne sono. Immaginare e credere nella propria immaginazione. Partire prima per arrivare puntuale. Sapere dove ci si trova e conoscere la propria velocità, quella della palla, quella degli altri. Arrivare dove tutti i difensori sanno che vuoi arrivare ma farlo nel modo più sorprendente possibile.

Per essere un campione bisogna avere queste ed altre qualità. Balotelli le ha. Alla fine se ci penso mi sembrano qualità relative all’orientamento. Sapere chi si è, cosa si vuole, che succederà. Saper fare un progetto, saperlo cambiare in corsa. Il tutto avviene meravigliosamente in area di rigore, per lui.

Nella vita la situazione sembrerebbe un po’ diversa. Quando ti togli una maglia significa che non fa per te. Quando Balotelli gettò a terra quella dell’Inter mi sembrò che i media non cogliessero la natura del gesto, fermi alla sua spettacolarità. Farlo dopo una sconfitta poteva sembrare il rifiuto della sconfitta, farlo dopo una fragorosa vittoria fu un gesto limpido di rifiuto.

E’ che forse siamo tante cose. Siamo anche – oltre a tutto il resto – quel che abbiamo e quello a cui apparteniamo. Ci riconosciamo nella casa, nell’auto, nel cellulare. Ma ci riconosciamo anche nei gruppi di appartenenza: la famiglia, il partito, i fratelli di tifo e molto altro. Sono tutte stampelle delle nostre identità troppo fragili per risplendere senza orpelli. D’altro canto il dramma scorre sempre fra due grandi famiglie di desideri: sapere che ci siamo e chi siamo da una parte; essere amati per quello che siamo dall’altra.

Quando Balotelli fa gol e l’Italia salta in piedi, nessuno ama Balotelli. L’Italia che esulta ama solo quello che Balotelli sa fare. Ma essere amati è relativo a quel che siamo, non a quel che sappiamo fare. Un giorno non lo sapremo fare più, sapremo fare cose diverse. Ma saremo sempre noi. quando Balotelli buttò la maglia lo fece davanti alla felicità dei tifosi per la vittoria. L’Inter aveva vinto ma Balotelli era stato criticato dal pubblico durante il match. Era il momento giusto. Era come dire: voi siete felici ma mi avete fischiato. Quello che cerco è un apprezzamento, è affetto.

Anche le non esultanze ai gol, che tanto fanno discutere. Ma non è difficile in realtà. Quando non mi sento vicino a te non ti comunico più i miei dolori e non faccio più festa con te. Non condivido niente e anzi il clamore di queste non esultanze – che è lo stesso di tutte le mattane del nostro – possono anche essere viste come una domanda verso la vita: ma questo gol è solo quello che so fare, non sono io! Perché nessuno mi vuole bene per quello che sono? A scanso di equivoci, la sua famiglia adottiva pare lo ami moltissimo. Ma le ferite dentro di noi sanguinano ugualmente perché sono generate dai significati che diamo alle cose, contro i quali i fatti della vita non possono granché. Una meravigliosa famiglia adottiva non cancella il primo schiaffo.

Il sapore della mela non lo conosce la mela ma la bocca di chi la mangia, così la nostra vera identità riposa nel cuore degli altri. E’ là che si decide tutto. Anche riguardo all’amore che ci tocca in sorte di ricevere. Siamo nelle mani degli altri. E gli altri nelle nostre. Balotelli fu lasciato dai genitori naturali in ospedale. Venne curato per due anni dal personale ospedaliero prima di essere adottato dalla famiglia di Brescia.

Oggi forse tocca a lui avere un figlio. E lui chiede il DNA per essere sicuro della cosa. Ci sono almeno due livelli in questa scena: uno è quello della sfiducia nei confronti della sua ex compagna. E’ il lato più evidente sul quale si soffermano le riviste. E di lì tutto lo stuolo dei commenti: ha ragione, ha torto, forse, mah, boh. Chissene. Il punto non è la domanda del DNA ma la meta-domanda in essa contenuta. La meta-domanda è quella che il personaggio pone senza sapere di porre. La domanda risponde al suo desiderio, la meta-domanda al suo bisogno non sempre riconosciuto.

Chiedere se qualcuno è tuo figlio in realtà significa chiedere se tu sei suo padre. Se sei diventato un padre. Qui mi sembra che la storia di Mario diventi veramente poetica, per questo mi ha colpito. Perché sta chiedendo il DNA di un’altra persona per capire chi è lui. Chi è diventato, che cosa lo aspetta. Sul piano-meta, la sua identità e non quella del bambino sono in gioco.

 

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