Una volta che abbiamo identificato l’obbiettivo del personaggio, e quindi dato una direzione precisa alle nostre scene, non abbiamo in mano ancora quasi niente. Se il nostro personaggio ha sete, il suo obbiettivo è un bicchier d’acqua. Se il bicchier d’acqua è davanti a lui, non fa che prenderlo e bere e la storia è finita. Più precisamente, quello che tutti sentiamo è che non è mai cominciata.
Il personaggio non ha raggiunto il suo obbiettivo. Lo ha semplicemente afferrato allungando la mano.
    Ma le storie sono tali solo se vale la pena di raccontarle. Quando c’è a qualsiasi livello, dal più fisico al più interiore e sofisticato, un’impresa che non cambi soltanto l’equilibrio delle cose, ma anche quello interiore del personaggio.
L’impresa è una lotta. Comica, drammatica, sofisticata o grottesca, l’impresa prevede che tra il personaggio e il suo obbiettivo sia calato un nemico. Un ostacolo di qualsiasi tipo che lo fronteggi. Che lo spinga alla lotta, al coraggio.
    A conoscere le proprie risorse e i propri punti deboli. Perché comica o drammatica che sia, la lotta di un personaggio contro il proprio nemico è sempre anche un percorso di conoscenza di sé.
Una volta erano gli indiani, poi sono stati i cow – boys, gli alieni, i russi, i licantropi, i pirati informatici. Il nemico ha sempre avuto un volto, a seconda di ciò che la politica e l’economia richiedevano.
    Oggi, nel nostro cinema, il nemico è quasi svaporato. Per certi versi giustamente, in quanto una spiccata tendenza all’interiorizzazione, ha portato le nostre storie ad identificare il nemico all’interno del personaggio stesso. Una parte dell’io, una divisione interiore, un’ombra intima e nascosta. Un po’ perché – sempre giustamente – il nemico oggi ha mille volti e li cambia tre volte al minuto.
    La sua assenza, la sua evaporazione, sono un grave danno per l’identità del personaggio. Perché il nemico nel quale si colloca il male, definisce per contrasto il personaggio che gli si oppone, il nostro eroe.
Sì… più scrivo più mi rendo conto che l’identità di un personaggio è data dalla chiarezza di chi e di ciò che gli si oppone. Da questo punto si apre un’altra finestra, su un nuovo panorama. Se ci riesco, cercherò di aprirla nei prossimi giorni…

0 risposte

  1. Non sono una scrittrice, ma il tema dell’identità del personaggio mi affascina. Credo che l’identità sia il risultato di una serie di coordinate in movmento: il personaggio è se stesso, ma cresce o diminuisce, o muta, a seconda degli stimoli che riceve.
    Innanzitutto credo che il personaggio sia da collocare nell’ambito di una appartenenza: status sociale, nazionalità, religione…e poi di un’appartenenza indotta. Peter Berger scrive: “A volte un hamburger è semplicemente un hamburger, però, il consumo di un hamburger, specialmente quando ha luogo sotto l’icona dorata di un ristorante McDonalds, è un segno visibile della partecipazione, reale o immaginaria, alla modernità globale”(Berger, Huntingtom). Oggi il senso o il desiderio di appartenenza indotta è molto forte a causa della pubblicità. “La catena del Burger King gestisce un club dei bambini, con filiali in venticinque è paesi e quattro milioni di membri” (T. Radcliffe). Ci sono comunioni indotte come la comunione di coloro che indossano i Levi’s o gli orologi Rolex e di coloro che ne indossano le imitazioni. Chi sono costoro? Chi sarebbe per questi individui il “nemico” che ne definisce l’identità?
    Il discorso si fa troppo difficile per me, ma credo sia molto interessante da indagare.

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