Mi trascino il bagaglio su rotelle, destinazione Stazione Centrale. Prendo la gialla a Missori. Con la destra stringo la valigia scorrevole, con la sinistra timbro. Sarà l’ora del mattino, ma sbaglio porta. Si apre quella di fianco. Torno indietro e passo.
Non penso alla questione e salgo sul treno.
Cinque ore dopo sono nella metropolitana di Roma, linea b destinazione Piramide. Compro un biglietto, mi avvicino ai cancelletti e timbro. E si riapre la porta accanto. A quel punto i pochi neuroni cominciano a lavorare faticosamente, e arrivano all’ovvia conclusione che il mondo è fatto per i destri. Costretto a timbrare con la sinistra ho scoperto che i mancini devono timbrare con la mano scomoda, a meno che non sviluppino una raffinatissima tecnica nel girarsi di spalle.
Questo tipo di beat, di piccolo episodio, è scrittura allo stato puro. Neutro, efficace, oggettivo. La discriminazione non è sempre un fatto drammatico o melodrammatico. E’ quotidiana, normale. Scene così non sono contenute nel progetto strutturale. Le trovi se guardi da dentro, con la pancia, la fatica e il respiro. Con il tempo d’attesa che si prende mentre si scrive, per capire.
Più invecchio – quindi sono già a buon punto – più mi rendo conto che senza conoscere non si può scrivere, e che scrivere è un modo straordinario per conoscere.
Ecco perché sono a disagio quando sento chiedere agli autori cosa volessero comunicare. Preferirei sentir chiedere agli autori che cos’hanno capito – se lo hanno capito – attraverso il loro percorso.
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