E’ piena estate. Torno a casa e Giada mi chiama verso il balcone. Guarda, guarda qui. Mi fa vedere – dietro la finestra chiusa – la poltroncina per bambini che sta sul terrazzino. La poltroncina è fatta di legno ed è parzialmente ricoperta di una tela imbottita. Nell’interstizio tra tela e legno si è infilata una vespa. La si può vedere puntando una minitorcia dritta nel punto. Un muso notevole che guarda fuori. Una sorta di calabrone. Beh – dico – se quello è un nido bisogna eliminarlo in qualche modo.

Ci facciamo venire un’idea. Prendiamo un sacco di cellophan trasparente che abbiamo nell’armadio e rapidamente ci chiudo dentro la poltroncina. Faccio un nodo. Con il caldo che c’è, il balcone sotto il sole, rapidamente la temperatura interna salirà così tanto che il problema sarà risolto. Odio provocare una morte così, ma non so come fare e un nido di vespe dove giocano i bambini è fuori discussione.

Il fatto è che quando chiudo il sacco e ci guardo dentro la vespa non c’è più. Se è un nido le altre saranno dentro, forse mentre prendevamo il sacco dall’armadio la vespa è uscita. Forse è andata a prendere da mangiare. Che ne so, non so nulla di vespe e poco di animali in generale. Però è un fatto che dopo qualche minuto la vespa – enorme – torna in balcone e comincia a ronzare. Gira intorno alla poltrona e non riesce a raggiungere la tana ovviamente. E’ furiosa. Torna, si allontana e torna.

Non posso farne a meno. Il film di una donna che esce di casa avendo lasciato i due figli da soli per dieci minuti. Quando torna, per qualche motivo non può più rientrare, e i due figli là dentro hanno i minuti contati. Una furia che rimango a contemplare senza trovare il modo di risolvere.

Due giorni dopo la vespa è sparita. Viene rotto il sacco e troviamo una quantità di piccole vespe annidate – morte – tra la tela e il legno. Che storia – penso. La mamma disperata da qualche parte, o impazzita, chissà. Passa ancora qualche giorno e dato il sole che picchia dritto in casa esco in balcone per sciogliere i tendoni legati con il nastro rosso. E quando sciolgo il primo nastro, dal tendone che si apre cade a terra tutta l’impalcatura di un altro nido. Una quantità di materiale soffice, piccoli fili, una specie di lana presa chissà dove. Ancora lei. Aveva proprio deciso che quello sarebbe stato il luogo. Perso un nido con i suoi abitanti aveva iniziato a ricostruirlo. Ecco perché non ronzava più furiosa. Ancora una volta il destino vuole che mentre il suo nido viene devastato, lei non ci sia. Ma torna, eccome se torna. Smarrita, confusa, piena di rabbia. Gira per il balcone tutto il giorno, inarrestabile. Il messaggio che non può stare lì non ha possibilità di passare dalla mia testa alla sua. E chissà quale sarà il suo che non può arrivare a me.

Un mese dopo sono in puglia. Un caldo africano. Nel taglio violento di luce del primo pomeriggio, l’accappatoio di Samuele brilla con colori sgargianti. Eccone un’altra. Una vespa enorme bazzica sull’accappatoio steso. Attratta dai colori – penso. Mi avvicino piano, voglio vedere cos’è che sta facendo con così tanta dedizione. E scopro che sta sfilando pazientemente dall’accappatoio tutti i pelucchi colorati che riesce a tenere. Quando è carica parte per chissà dove. Purché non vada sul nostro balcone a Milano – penso. Ma rimango a guardarla, e ancora adesso l’accappatoio di Samuele ha le chiazze di tessuto rosicchiato dalla piccola belva. E’ uno spettacolo magnifico. La costruzione di una casa.

Vedo le foto di questi giorni sul giornale e penso che se tra la vespa e noi non c’è  tutta questa distanza, forse nemmeno una mamma irachena e una mamma italiana sono così lontane.  Sì sì, è un pensiero banale.  Ma la natura è chiarissima.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *