
Le storie ci aiutano sempre a capire. Orfeo scende nell’Ade domandandosi che farà senza Euridice, sua giovane sposa morta repentinamente per il morso di una vipera. Il canto di Orfeo tocca profondamente il mondo dell’Ade e arriva a smuoverlo. Gli viene concesso di riportare in vita Euridice, ma a condizione che lui esca dall’oltretomba senza voltarsi indietro a guardarla mentre lo segue.
Che senso ha questa prova? E’ una crescita interiore. Scendere nell’Ade per riprendersi Euridice significa affermare che si è una cosa sola con l’altra persona, al di là della morte. Significa dire che si è indivisibili e che la morte si è sbagliata. Quindi se è vero che tu e lei siete la stessa cosa, uscito tu dall’Ade ne sarà uscita anche lei. Ma se ti volti a guardare significa che fai l’ipotesi che lei non ci sia. Quindi lo sai: siete due persone diverse, divisibili. Se mi volto e ti vedo ti realizzo come altro da me. E’ la fine di una simbiosi. E’ un percorso di consapevolezza: Orfeo doveva toccare questo punto dentro di sé. Doveva accettare la possibilità della separazione e della morte. Voltarsi significa proprio questo: aver fatto l’ipotesi, cosa che non contempliamo nel momento della rabbia e della ribellione, quando con Orfeo scendiamo nell’Ade di tutte le nostre sofferenze a recriminarne l’ingiustizia. Per quanto strano ci possa sembrare, Orfeo ed Euridice finisce bene. Non c’era in gioco nessuna possibilità che Euridice tornasse: era in gioco solo la consapevolezza di Orfeo. Orfeo è promosso vedovo, cioè adulto e cosciente di sé e della propria storia: questo era il fine del suo viaggio anche se lui non lo sapeva.
Ecco perché, quando sono quasi all’uscita, Orfeo non regge e si volta. Ed Euridice è lì, che cammina dietro di lui. Bellissima ma con gli occhi tristi, forse perché consapevole dell’impossibilità dell’impresa, viene riassorbita dal fumo nero dell’Ade e scompare.
Che cosa significa? Un mare di cose credo. Ne colgo una. Orfeo non perde Euridice perché la vede. Orfeo vede Euridice perché l’ha persa. L’Ade è un utero nel quale Orfeo e il suo amore camminano. Quando sei nell’utero possiedi la madre, ci sei dentro. Quando nasci vieni espulso, sei fuori, hai perso la madre e… puoi vederla.
Insomma, quel che vedi è fuori di te. Se lo vedi non sei tu. Orfeo non deve capire che Euridice è morta, questo lo sa già: deve capire che lui è vivo. E’ un viaggio di maturazione: quando scende nell’Ade sta vivendo ancora una simbiosi con Euridice, quando sale vive una relazione con la propria memoria. Ha capito di essere vivo. Ha perso Euridice perché ha trovato se stesso.
Ecco, questa simbiosi è quella che spesso tendiamo ad avere con il nostro dolore. Non riusciamo a prendere le distanze, a voltarci a vederlo mentre ci segue. Quindi non riusciamo a perderlo. Grazie ad Orfeo lo capiamo meglio, perché – come lui con Euridice – anche noi siamo identificati con la nostra ferita, con la nostra sofferenza: non ci voltiamo a guardare perché vorrebbe dire distinguerla da noi e prenderne coscienza. Significherebbe scoprire che tanta parte della cattiveria del mondo era soltanto un punto sanguinante di noi. Abbiamo sempre paura di scoprire che stiamo male e che il problema è nostro.
La proposta di Orfeo al regno dell’oltretomba non è di far resuscitare Euridice. E’ più articolata: o Euridice torna sulla terra con lui, o che almeno lui possa restare laggiù, nell’Ade. Quindi la grossa paura di Orfeo non è la morte, ma la separazione. Per noi non è diverso: vedere la nostra ferita significa al tempo stesso accettarla e smettere di identificarci con essa, non coincidere pienamente con il nostro punto di vista. Perdere la simbiosi ingannevole con una parte di noi ed entrare davvero in relazione con la nostra storia e con la nostra vita.
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