Ci sono due serie televisive americane che, proprio in questi mesi, hanno vissuto e stanno vivendo un periodo di particolare intensità. Entrambe generate dalla mente geniale di J.J.Abrams, sembrano essere andate incontro a diversi destini.

       Mentre Alias ha concluso la sua quinta e ultima stagione in piena gloria, con un folto pubblico di appassionati, Lost vive con grandi difficoltà la sua terza stagione, e mi è giunta voce – non so se sia vero – che sia stato chiamato Stephen King per contribuire a trovare un finale decente e chiudere la vicenda. Vorrei radiografare l’assetto drammatico delle due serie, per tentare di capire gli esiti che ne sono maturati.

 

     In Alias ci troviamo di fronte a un perno centrale, Sydney Bristow, agente segreto della CIA, che vive tra inganni, travestimenti, doppi giochi, non potendo mai fidarsi di nessuno e non essendo mai certa di conoscere la verità. Umanamente, invece, Sydney è  una ragazza di cuore, profondamente legata ai sentimenti, alla sincerità delle relazioni. Per lei vale questa regola:  nessuno può sapere della sua vera professione, pena la morte. Così, proprio alle persone che ama di più, deve mentire quasi su tutto.  Nella sua vita, la verità uccide, ma senza verità lei non sa vivere. Il conflitto è forte, chiaro, interno ed esterno al personaggio, illumina le svolte della storia, che hanno sempre a che vedere con il problema della verità che non si può dire, accettare, condividere.

    In Lost, il perno centrale è un luogo: l’isola sulla quale l’aereo è precipitato lasciandovi una quarantina di persone. Qui i piani drammatici sono due: il più importante vede il gruppo tentare di uscire dalla situazione, di farsi trovare, vedere, soccorrere. Ma non esiste per questo alcun mezzo sensato a disposizione, e la partita si chiude ben presto. Così, alla serie non resta che vivere del secondo fronte drammatico: quello che si apre con le divergenze all’interno del gruppo, linea sulla quale è innestata l’intuizione drammaturgica dei flashback che ci fanno conoscere di volta in volta sempre meglio i personaggi.

    Lost vive su questo terreno friabile, che a quanto pare gli è franato sotto i piedi: porta avanti la vicenda attraverso le sotto-storie, e lascia inattivato il conflitto centrale. Finché non ci sarà un modo per uscire da quell’isola – senza che vengano ritrovati per caso perché questa soluzione costituirebbe un vero fallimento narrativo – Lost vivrà di conflitti interni che non sono nemmeno tangenti il problema di fondo. Se ci fosse una via d’uscita, magari rischiosa, e il gruppo si dividesse in favorevoli e contrari, dando vita a un conflitto profondo e senza ritorno, Lost recupererebbe il piano narrativo e tornerebbe in partita.

    Tutto questo mi fa riflettere sull’importanza di mantenere una proporzione sempre funzionale tra i desideri dei personaggi e la loro possibilità di raggiungerli. Quando la proporzione non c’è, come per i protagonisti di Lost, la storia salta. Non riesco a non pensare che questa dimensione iperbolica dei desideri che si scontra con un’impotenza rovinosa a realizzarli, sia un po’ un segno distintivo del nostro tempo. L’esito di tutta la frustrazione che ne deriva lo vediamo davanti a noi: la rinuncia ad ogni desiderio, la disillusione su tutto.

    Così, la disfunzione drammatica di Lost sembra essere un po’ quella dei nostri giorni. A dimostrazione del fatto che quando i grandi autori lo sono veramente, la loro luce si intravede anche nei progetti meno felici. 

    
 

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