Quando ho visto questo film, la prima cosa che ho pensato è che raramente un lavoro è così rappresentativo dei tempi che stiamo vivendo e che soprattutto il cinema italiano sta attraversando. “La bestia nel cuore” ha una scelta tematica fortissima: l’abuso incestuoso di un padre sui figli piccoli. Che li segna per il resto della loro vita. Sfida pesante e di grande responsabilità: nel folto pubblico che avrebbe poi assistito alle proiezioni, era facile immaginare che più di qualcuno si sarebbe segretamente o non segretamente riconosciuto.

Come sempre, queste sono radiografie soggettive, non valutazioni di merito. Un personaggio, visto che in questo film il personaggio è il motore di tutto (la storia è passata da molti anni e questo è il tempo di affrontarla e capirla), si costituisce di solito di tre dimensioni, come tutti noi. Diciamo almeno tre. Una dimensione intima (noi soli nudi di fronte allo specchio), una dimensione personale (noi con i nostri rapporti personali più stretti), una dimensione sociale (noi nel mondo e nel nostro lavoro). Ogni cosa che avviene nella nostra vita ha riflessi diretti o indiretti su tutte e tre queste dimensioni. Un malessere intimo incide sui rapporti e sul lavoro, e così via.

Giovanna Mezzogiorno (ho letto qualche stroncatura per lei, a me sembra sempre molto brava) inizia a sentire un malessere nei sogni. Quindi nella sua sfera intima. Questo malessere si espande e ne parla al fratello da molti anni in America. Del suo lavoro – sua dimensione sociale –  vediamo qualche secondo, praticamente non esiste: fa la doppiatrice e le pochissime scene sull’argomento servono unicamente per “prelevare” la Finocchiaro da “girare” alla non vedente Stefania Rocca. Le dimensioni della protagonista sono quindi dall’inizio ridotte a due. Non sapremo mai come e quanto e se la scoperta dell’abuso subito inciderà sul suo lavoro. Non solo. La donna decide di non parlarne con il suo uomo, e praticamente nemmeno con la sua amica del cuore, appunto Stefania Rocca. Solo con il fratello. Giustificato, scelta lecita. Ma così ci viene praticamente tolta anche la dimensione personale del confronto.

Rimane la scena notturna in cucina, con Lo Cascio che racconta piangendo la triste vicenda della loro infanzia, e lei che piangendo ascolta. E pone una domanda, sacrosanta: e la mamma ? Non diceva nulla la mamma ? Giusto, bel momento. Ma a mio avviso insufficiente. Insomma, se io sapessi di aver subito degli abusi di cui non ero a conoscenza perché troppo piccolo, da mia sorella maggiore vorrei sapere tutto, maniacalmente, anche i dettagli. Soprattutto quelli. Perché si sta parlando di qualcosa che ho subito io, qualcosa di gravissimo e per certi versi di mai completamente riparabile.  Invece l’unica cosa che viene detta è che “avvenne due volte”. Avvenne cosa ?

Qui voglio fare un passo indietro. “Sotto accusa”, Jonathan Kaplan, Oscar a Jodie Foster come miglior attrice. Dall’inizio del film capiamo cosa le è successo. Entra in un bar, è un po’ brilla, si lascia andare a un ballo un po’ provocatorio e subisce un efferato e reiterato stupro. Lo sappiamo da subito e fino alla fine del film non si fa che ripetere la cosa. Arriviamo al terzo atto, il processo. Jodie Foster in primo piano per un tempo infinito, con voce monocorde e sguardo fisso ripercorre ciò che noi sappiamo perfettamente. Ma lo riempie di cose, luci, dettagli, colori, sapori. Di tutto ciò che costituisce l’esperienza fisica ed emotiva della vita. Che si stampa dentro e non si toglie più. In altre parole, di verità. E’ il momento più duro del film. A dispetto di tutto quel che abbiamo visto prima. Lei che lo racconta. Perché il personaggio di Giovanna Mezzogiorno non chiede al fratello di raccontare tutto ? Tutto quello che ricorda, accidenti, è della sua vita che si sta parlando.

Ma non si sta affermando che sceneggiatori molto più esperti del sottoscritto abbiano commesso errori o fatto un brutto lavoro. (Anche se certe sviste non sono belle. Lei ad esempio arriva in America dove il fratello vive da anni e gli chiede: “Allora, come ti trovi qui ?” Non gli ha mai parlato al telefono ? E sul finale, qualcuno mi suggerisce: dopo anni di psicoterapia perché non riesce a toccare i suoi figli, a Lo Cascio basta aver visto la sorella una volta per abbracciarli sereno ?)

Si sta affermando, come si diceva all’inizio, che questo film fotografa una situazione molto italiana. C’è molta capacità di fare bene le cose. Il film è realizzato bene credo in tutti i suoi aspetti. Gli attori ci sono e sono quasi tutti molto bravi. Ma a dispetto della depressione del regista televisivo Battiston, che solleva il velo sulla situazione produttiva televisiva e sulla sua qualità, la Comencini realizza esattamente un prodotto televisivo. La differenza tra “La bestia nel cuore” e “Sotto accusa” o “Festen” è il prime time. Fai dire a Lo Cascio che cosa gli ha fatto suo padre, fai andare Giovanna Mezzogiorno in crisi fino in fondo, falle attraversare un momento serio di rifiuto anche del bambino, falla forse persino abortire in preda alla solitudine e alla disperazione. Evita di cambiare i gusti sessuali della Finocchiaro e lascia Stefania Rocca a fare i conti sul serio con una solitudine con la quale tutti in un modo o nell’altro ci dobbiamo confrontare. E’ un altro film. Non va su Rai Uno in prima serata. Ci va molto più tardi e sarà un film molto più scomodo. In altre parole, non sarà un film tipicamente italiano.

La radiografia forse stavolta è poco obiettiva, forse severa. Ma sento il rammarico dell’occasione perduta. La capacità di fare che non corre sui binari del coraggio. La voglia di conoscere i personaggi che deve fare i conti con chi conosce troppo bene il pubblico. La necessità della storia che sbatte contro quella del bilancio. Spero di rivedere presto un film di Cristina Comencini. Perché a mio avviso sarebbe bastato un pizzico di coraggio in più, e l’Italia avrebbe un altro Oscar.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *